This site uses cookies.
Some of these cookies are essential to the operation of the site,
while others help to improve your experience by providing insights into how the site is being used.
For more information, please see the ProZ.com privacy policy.
Freelance translator and/or interpreter, Verified site user
Data security
This person has a SecurePRO™ card. Because this person is not a ProZ.com Plus subscriber, to view his or her SecurePRO™ card you must be a ProZ.com Business member or Plus subscriber.
Affiliations
This person is not affiliated with any business or Blue Board record at ProZ.com.
English to Italian: Fourth ProZ.com Translation Contest - Entry #1270
Source text - English When my wife told me she was pregnant, I got that stomach-churning sensation that hits you on a plunging roller coaster. I was excited, yes, but... oh my God. Parenting was for, well, parents.
So here I stand, bug-eyed and sweating buckets like some poorly-drawn cartoon character, the question marks floating in the air around my head while I try to prepare myself for the complete care and responsibility of another living being besides my cat. I'm responsible for making sure this little human doesn't grow up and turn into a complete monster. If the child turns out a social moron-- my fault. If the babe can't find Luxembourg on the map, blame me for not providing a better education. They'll need therapy, and of course that will be on my head too. So many opportunities for wrong turns!
I remember the day my father sat me down and awkwardly told me about the birds and the bees; it was perhaps the most excruciating and embarrassing half hour of both our lives. I can't do that to another human being.
Maybe I'm getting a little ahead of myself here. I can do this, I say; I'll be a great father. My child will be reared a well-rounded, educated, upstanding citizen of the world, and he or she won't hate me.
And then I imagine the baby, still safe within the confines of my wife's belly, suddenly opening an alarmed eye as the thought enters his or her mind: "What if my dad just can't hack it?
Translation - Italian Quando mia moglie mi ha detto “aspetto un bambino”, mi sono ritrovato di colpo lo stomaco tra i denti che neanche su un ottovolante in picchiata. Non che non fossi contento, anzi, ma... oggesù. I figli sono roba da genitori.
Infatti adesso sono qua – lo sguardo vitreo, il sudore che ruscella e una selva di punti di domanda che mi galleggiano sopra la testa, come in una comic strip di quarta – che cerco di abituarmi all'idea di essere responsabile per e prendermi cura di un altro essere vivente che non sia il mio gatto. Perché tocca a me fare in modo che il piccolo frutto dei miei lombi non si trasformi in un mostro. Se diventa un asociale è tutta colpa mia. Se non riesce a trovare il Lussemburgo sulla carta geografica, sono io che non ho provveduto a fornirgli un'istruzione adeguata. Dovrà andare dallo psicologo, e anche per quello dovrò dire “mea culpa”. Che assurdo percorso di guerra, il mestiere di genitore!
Ricordo ancora quella volta che mio padre mi disse “siediti” e cominciò a ingarbugliarsi su una storia sconnessa di api e fiori: credo sia stata per entrambi la mezzora più penosa e imbarazzante di tutta la vita. Non posso infliggere una simile tortura a un altro essere umano.
Okay, forse sto correndo troppo. Ce la posso fare, mi dico; sarò un ottimo padre. Mio figlio sarà un degno cittadino del mondo – equilibrato, beneducato, sereno – e non mi odierà.
Poi mi sembra di vederlo, il bambino, mentre da dietro la barriera protettiva del pancione di mia moglie sbarra l'occhio, la mente trafitta da un dubbio improvviso: “E se mi tocca un padre di quelli negati?”
English to Italian: 5th ProZ.com Translation Contest - Entry #3076
Source text - English All travel is now merely a means of moving a camera from place to place, all travellers are ruled by the all-powerful lens. Visitors old-fashioned enough to wish only to stand and look with their anachronistic eyes are shoved aside by the photographers, who take it for granted that while they do their ritual focusing, nothing else may move or cross their vision. Those peculiar souls without a camera must step aside for those more properly occupied, must wait while the rituals take place, and must bide their time while whole coaches stop and unleash upon the landscape the Instamatic God. And the populations of whole countries seeing themselves cannibalised, swallowed up, vacuumed into the black-ringed staring eye, wrench what they can from the cannibals. You want picture my house, my camel? You pay.
None of this would matter, perhaps, if anything worthwhile was being accomplished. If all the constant busyness and clicking produced, at its end, what had not existed before, images of beauty captured or truth told. But, sadly, this isn't so. The camera is simply graffiti made respectable.
The camera is the means by which we stamp ourselves on everything we see, under cover of recording the Wonders of the World already wonderfully
recorded by professionals and on sale at every corner bookshop and newsagent. But what use to show Aunt Maud, back home, postcards of the Tuscan landscape, since we are not in the picture to prove that we were there?
No stretch of rocks has verity unless I am within it. No monument exists
but for my wife, leaning against it. No temple is of interest without my face beside it, grinning. With my camera I appropriate everything beautiful, possess it, shrink it, domesticate it, and reproduce it on my blank sitting-room wall to prove to a selected audience of friends and family the one absolutely vital fact about these beauties: I saw them, I was there, I photographed them, and, ergo, they are.
from "Amateur Photography: the World as it isn't and our Fred" by Jill Tweedie in the Guardian
Translation - Italian Ormai viaggiare non è altro che un pretesto per scarrellare la macchina fotografica da un soggetto all'altro, con il viaggiatore trasformato in schiavo di un tirannico obiettivo. Quegli anacronistici relitti del passato che ancora si ostinano a guardare e basta si ritrovano neanche tanto gentilmente spinti da parte dagli adepti dell'apparecchio che, durante la rituale messa a fuoco, pretendono che niente e nessuno si muova o invada il loro campo visivo. Gli eccentrici che girano senza macchina fotografica devono fare posto a chi ha una missione da compiere, aspettare che il rito giunga a termine e portare pazienza sino a quando i torpedoni turistici abbiano finito di vomitare le schiere di adoratori della Dea Instamatic ansiosi di evocare la divinità. Le popolazioni di interi paesi, dal canto loro, vedendosi smembrate, risucchiate, inghiottite dall'implacabile occhio nero-cerchiato, si vendicano dei cannibali spremendo loro quel che possono. Vuoi foto di mia casa, mio cammello? Tu paga.
Il che andrebbe anche bene, alla fine, se almeno ne venisse fuori qualcosa di buono. Se tutto quel gran darsi da fare e quel folle mitragliare di otturatori producesse, se non altro, qualcosa che prima non esisteva – immagini di inedita bellezza o verità mai pronunciate. Peccato che non sia così. Fotografare non equivale ad altro che a passare una mano di rispettabilità sui graffiti più trucidi.
La macchina fotografica è il pretesto e lo strumento per imprimere noi stessi sulla realtà circostante mentre fingiamo di immortalare Le Meraviglie del Mondo, peraltro già meravigliosamente immortalate da professionisti i cui lavori sono acquistabili in qualunque libreria. Ma che gusto ci sarebbe, diciamocelo, a mostrare alla zia Genoveffa cartoline della campagna toscana in cui la nostra persona non appare e che, quindi, non servono a dimostrare che c'eravamo?
Il cumulo di rovine non vuol dire niente, se non ci sono sopra io. Il monumento non esiste senza l'amata consorte appoggiata contro. Il tempio non è degno d'interesse, se non c'è il mio sorriso tutto denti ad illuminarlo. Attraverso la macchina fotografica mi approprio di tutto ciò che è bello, lo fagocito, lo adatto alla mia taglia, lo addomestico e lo appendo alla parete del soggiorno per dimostrare a un pubblico selezionato di amici e parenti l'unica, vera, rilevante realtà di quelle bellezze: IO le ho viste, IO c'ero, IO le ho fotografate, dunque ESSE sono.
Da "Amateur Photography: the World as it isn't and our Fred" di Jill Tweedie, The Guardian
German to Italian: Artikel von General field: Art/Literary Detailed field: Journalism
Source text - German "Ich bin stark"
Vor drei Jahren entfloh Natascha Kampusch ihrem Entführer - nach 3096 Tagen im Verlies. Mit unserem Autor Peter Reichard ist die Österreicherin wieder an den Tatort zurückgekehrt
Am 23. August 2006, gegen 13 Uhr, hastet eine junge Frau durch die Gärten einer Wohnsiedlung bei Wien. Sie hat einen günstigen Moment genutzt, um dem Mann zu entkommen, der sie als Zehnjährige auf dem Schulweg entführte, in ein winziges Verlies seines Hauses sperrte und wie eine Leibeigene hielt, achteinhalb Jahre lang. Dreitausendsechsundneunzig Tage und Nächte. Der jungen Frau gelingt die Flucht. Ihr Entführer nimmt sich das Leben. Von einem Tag auf den anderen kennt die ganze Welt ihren Namen – Natascha Kampusch. Und wartet darauf, dass sie ihre Geschichte erzählt.
Wer in einer Behörde die Nummer 134 zieht, muss sich auf eine lange Wartezeit einstellen. Aber er weiß, irgendwann kommt er dran. Genau das weiß ich nicht. Denn die Nummer 134 hat mir Natascha Kampuschs erster Medienberater verpasst, der seit Tagen mit kaum etwas anderem beschäftigt ist, als den Ansturm journalistischer Bittsteller listenmäßig zu erfassen. Meine Chance wird auf eins zu 400 schmelzen, so hoch ist am Ende die Zahl meiner Konkurrenten. Wir alle wollen dasselbe: mit Natascha Kampusch sprechen – über ihr Schicksal. Exklusiv natürlich.
Ich war, bevor ich Dokumentarfilmer wurde, in Hamburg Polizist gewesen, hatte als Kripofahnder in zwei internationalen Fällen Kidnapper gejagt. Warum nicht diese Erfahrung nutzen und Kontakt zu meinen österreichischen Exkollegen knüpfen? Und meine journalistisch tätige Frau einbeziehen, die einen besonderen Zugang zur Mentalität des Nachbarlandes hat – sie ist Österreicherin.
Wir reisen nach Wien und kehren mit dem Versprechen von Polizei und Staatsanwaltschaft zurück, dass sie unser Projekt unterstützen werden. Unter einer Voraussetzung: Natascha Kampusch muss sich daran beteiligen, das Wohl des Opfers stehe über allem. Wir sind beeindruckt von der amtlichen Fürsorge. Die auch uns vielleicht ein wenig zuteilwurde, wir wissen es bis heute nicht. Denn plötzlich gehen für uns alle Türen auf: Wir dürfen Natascha Kampusch treffen. Im Büro ihres Medienberaters Nummer zwei.
Wie sollen wir ihr begegnen?
Wir haben gehört, sie möge kein Parfum. Und keine Menschen mit überbordendem Temperament und heftigen Gesten. Nun, wir benutzen Duftwässer und reden mit Händen und Füßen. Für uns ist klar: Wir fahren zwar das alles ein wenig herunter, aber wir bleiben wir selbst. Denn aus meiner Zeit als Polizist weiß ich: Wer wie Natascha Kampusch über Jahre hinweg darauf trainiert ist, jedes Körpersignal, jede Bemerkung seines Peinigers zu deuten, um daraus einen winzigen Nutzen für das eigene Überleben zu ziehen, dem kann man nichts vormachen.
Dann steht sie vor uns. Blass und schmal. Ihr scheuer Blick streift unsere Gesichter, sie reicht uns die Hand am schnurgerade ausgestreckten Arm. Eine Schutzmaßnahme, wie wir noch lernen werden, mit der sie Menschen auf Distanz hält. Denn es gibt fast niemanden, dem sie vertraut. Wolfgang Priklopil, ihr Entführer, hat ihr Vertrauen in lauerndes Misstrauen verkehrt, weil sie ihm ausgeliefert war und nie wissen konnte, was er in der nächsten Sekunde mit ihr vorhatte. Wer Natascha Kampusch näherkommen möchte, muss sich ihr Vertrauen erarbeiten. Sagen, was er denkt, und denken, was er sagt. Sie nie hintergehen. Sie unterzieht uns einem Vertrauenstest, wir stehen unter Langzeitbeobachtung. Sie hofft, dass wir verstanden haben, was für sie wichtig ist. Das ist vor allem der Respekt vor ihrer Intimsphäre, allem Privaten. Was jedoch intim und privat ist, definiert sie anders als wir. Ihre Grenze zur Verletzung ist hauchdünn.
Natascha Kampusch wirkt unendlich traurig an jenem Märznachmittag 2007. Stumm hört sie sich an, warum gerade wir es seien, die besonders einfühlsam und professionell eine Fernsehdokumentation über ihr Schicksal machen würden. Wir versuchen, ein Gespräch mit ihr in Gang zu bringen. Stellen Fragen, die sie höflich beantwortet, mit zarter, leiser Stimme. Ich möchte sie umarmen. Reiße mich zusammen, unterlasse es. Dann, endlich, hat auch sie eine Frage. Ich soll ihr alles über Jakob von Metzler erzählen, über dessen Fall ich einen Dokumentarfilm gedreht habe.
Wir sind überrascht – wie kommt sie darauf? Sie habe das Drama um den Bankierssohn aus Frankfurt im Fernsehen verfolgt, sagt sie. Sie habe mit ihm und seiner Familie gelitten, aber ihre Gefühle unter Kontrolle halten müssen, da sie ja selber von ihrem Entführer Wolfgang Priklopil kontrolliert worden sei.
Eine Stunde ist vergangen. Wir verabschieden uns und haben nun mit der eigenen Traurigkeit zu kämpfen, die Natascha Kampusch in uns auslöst. Wir wissen, dass sie Zeit brauchen wird, um ihr neues Leben zu ordnen. Dass sie gesund werden muss, soweit das bei ihrem Schicksal möglich ist. Dass sie sich stark genug fühlen muss, um sich an die Mitarbeit an unserem Film heranzuwagen. Das haben wir ihr gesagt. Wir wissen, dass wir nur dann glaubwürdig bleiben, wenn wir sie nicht drängen. Sie in Ruhe lassen, bis von ihr das Zeichen kommt: Ich bin so weit.
Diese Geduld ist mit dem Risiko behaftet, dass nichts daraus wird. Die Konkurrenz bohrt täglich bei ihrem Medienberater nach. Aber es gibt keine Alternative zum langen Warten, das nun beginnt.
Nach einem Jahr wird unsere Geduld belohnt. Natascha Kampusch ist bereit, den Film mit uns zu machen. Im Dezember 2008 sehen wir sie wieder, nun im Büro ihrer beiden jetzigen Medienberater. Sie ist wie ausgewechselt, so scheint es: beschwingt, fröhlich. Sie erzählt uns kleine Alltagsgeschichten mit Sinn für Witz, wir müssen häufig lachen. Acht Stunden geht das so. Unglaublich, wie sie sich erholt hat, denken wir. Und müssen diesen Eindruck korrigieren, als wir im Januar 2009 mit ihr Vorgespräche für das Fernsehprojekt führen. Wir erhalten dabei Einblicke in eine gequälte Seele, die kaum eine Chance hat, sich jemals zu erholen. Erst hat ein kommunikationsgestörter Schwächling sich an ihr ausgelassen, achteinhalb Jahre lang. Nun sind es die Medien, die sie umlauern. Tag für Tag. Weil sie mehr hinter der Entführungsgeschichte vermuten – etwa, dass es Mittäter gab, dass Priklopil zu einem Kinderpornoring der feinsten Wiener Gesellschaft gehörte, dass die Mutter in das Verbrechen verstrickt war.
Zur Legendenbildung hat Natascha Kampusch ungewollt selber beigetragen. Sie hat sich der Welt vor den Kameras als selbstbewusste junge Frau von madonnenhafter Schönheit präsentiert. Intelligent, eloquent, mit einer fast druckreifen Sprache. Nichts von einem Opfer. Das scheint sich nun zu rächen. Die simple Version der Tat ist nicht gefällig.
Aber sie ist die Wahrheit.
Wir haben sie zigmal überprüft bei den Behörden. Immer wieder nachgehakt bei Natascha Kampusch, bei ihrer Mutter, beim besten Freund Wolfgang Priklopils, unseren Kronzeugen vor der Kamera. Es bleibt wahr: Natascha Kampusch wurde entführt, gefangen gehalten, gequält, beherrscht von einem einzigen Mann. Einem, der so lange von der eigenen Schwäche beherrscht wurde, bis er dieses Kind von der Straße raubte und einsperrte, um daraus Stärke und Überlegenheit zu schöpfen. Nicht genug offenbar, denn bezwungen hat er sie nicht. Sie hat dem seelischen Müll, der sich in Wolfgang Priklopil angesammelt hatte, getrotzt. Am Ende lief sie ihm davon. Er brachte sich um, sie lebt – mit all den Scheußlichkeiten und Entwürdigungen, die er wie die Abdrücke harter Profilsohlen in ihrer Seele hinterlassen hat.
Natascha Kampusch rührt in ihrem Tee. Sie sitzt uns gegenüber, schildert uns ihre Entführung am 2. März 1998. Wie Priklopil sie auf dem Schulweg plötzlich in seinen weißen Kastenwagen zerrte, sie auf den Boden warf, hinters Steuer kletterte und davonraste. Sie dann, in eine blaue Decke gehüllt, im eine halbe Stunde Autofahrt entfernten Strasshof in das winzige Kellerverlies seines Hauses trug. Sie dort sechs bis neun Monate lang – genau weiß sie es nicht, da ihr jegliches Zeitgefühl abhandenkam – einsperrte, bevor er sie zum ersten Mal in seine Wohnung hochholte, hinter heruntergelassenen Jalousien, in diffusem Licht. Er kontrollierte sie, überwachte sie, bedrohte sie. Und sie? Verlernte das Weinen. Tränen hinterlassen Spuren auf polierten Bodenfliesen. Das duldete der Reinlichkeitsfanatiker Priklopil nicht. Er rieb sie ihr mit Gewalt in die Augenhöhlen zurück. Im Lauf der Jahre nahm er sie ab und zu mit in den Garten, nachts, für Minuten. Sie sog die frische Luft ein. Strich mit der Hand über Gräser, Blüten. Bettelte darum, einen Zweig in ihr unterirdisches Verlies mitnehmen zu dürfen. Sie durfte und wurde gleich darauf mit Essensentzug bestraft, weil sie auf dem Küchentisch einen Fingerabdruck hinterlassen hatte, den er sofort wegwischte – hart zupackend, mit ihren Handrücken. Ein Leben in der Hölle, unter der Fuchtel eines Teufels, der trotz gelegentlicher Freundlichkeiten ein Teufel blieb. Mit dem sie um jede Winzigkeit rang.
Sie war froh, wenn sie nicht mit ihm in der Wohnung sein musste, sondern im Verlies bleiben konnte. In ihrer engen, zugemauerten Welt mit Büchern, Stiften und Papier. Später mit einem Radio und einem Fernseher, in dem sie sich Videos anschauen konnte.
Wenige Monate bevor Natascha Kampusch einen unbewachten Augenblick für ihre Flucht nutzte, nahm Priklopil sie einige Male mit in die Öffentlichkeit – die sich heute so schwertut, zu verstehen, warum sie nicht schon da die Chance ergriff und weglief oder wenigstens um Hilfe rief. Ihre Erklärung: Sie habe den Menschen einfach nicht zugetraut, dass sie die Gefahr, in der sie schwebte, sofort erfassen und entsprechend handeln würden. Denn Priklopil hatte ihr angedroht, sie und mögliche Befreier auf der Stelle umzubringen. Wie sollte sie auf Menschen bauen, von denen sie über so viele Jahre hinweg absolut entfremdet worden war durch ihren Entführer, auf dessen Bedürfnisse sich ihr gesamtes Leben seither konzentrierte? Wie sollte sie diese psychische Sperre durchbrechen?
Die Leute«, sagt sie, »brauchen nur das Experiment zu machen und eine Hauskatze bei der Wohnungstür rauslaufen zu lassen. Die wird sich dann auf die siebte oder achte Stufe setzen und nicht mehr vom Fleck bewegen und kläglich miauen, weil sie Angst vor der Freiheit hat. Angst, dass irgendwas passiert. Weil sie ja damit rechnet, dass sie sofort eingefangen und sanktioniert wird. Genauso geht es einem Menschen, der so lange isoliert wurde wie ich.«
Natascha Kampusch hat ein Bild gemalt. Ein Mensch treibt auf einer Eisscholle. Plötzlich der Ruf: »Flieh! Lauf davon!« Aber wohin? Ins eiskalte Wasser springen? Da scheint es doch sicherer zu sein, auf der Scholle zu bleiben. So hat Natascha Kampusch die achteinhalb Jahre überlebt. Mit unendlicher Kraft. Aber woher nahm sie die?
Stark war sie schon, bevor sie entführt wurde. Intelligent, vor allem wohl sozial intelligent. In der Gefangenschaft spürte sie, dass sie sich mit Hass selber umbringen würde. Sie griff zu einer Lösung, die im normalen Leben schon schwer genug ist und für ein Kind in ihrer Lage geradezu unglaublich erscheint: Sie verzieh. Verzieh Priklopil, so schnell es ging, alle Bosheiten, mit denen er sie drangsalierte. Sah in ihm das, was er war: ein fehlgeleiteter, schwacher Mensch, klein gehalten durch den Vater, dessen Anerkennung er suchte, aber nicht bekam. Weil sie das begriff, verzieh sie ihm, dass er sie klein hielt.
Manchmal dachte sie sogar: Wie gut, dass es nicht ein anderes Kind getroffen hat. Ich bin stark. In diesem Bewusstsein arbeitete sie auf ein Ziel hin: eines Tages zu fliehen. Wenn sie über die psychische und physische Kraft verfügte, die dafür nötig sein würde. Ihr Plan ging auf. Nicht jedoch die Hoffnung auf ein Leben ganz in Freiheit, denn Natascha Kampusch ist nicht frei. Sie ist eingesperrt. Wieder. Nur ihr Aktionsradius ist jetzt größer. Sie bleibt überwacht, auf Schritt und Tritt, nun von der Gesellschaft.
Die verübelt ihr die inzwischen abgesetzte Talkshow im österreichischen Fernsehsender Puls4, in der sie Prominente befragte. Man glaubt, sie sei wohlhabend, und hält ihr, bisweilen unflätig, vor, dass sie mit der U-Bahn fahre statt mit ihrer Luxuslimousine – die sie in Wirklichkeit ebenso wenig hat wie das viele Geld, das man bei ihr vermutet; schließlich habe sie Priklopils Haus geerbt, als Entschädigung. Man wirft ihr Großspurigkeit vor, da sie gemeinnützige Projekte finanziell unterstützen wollte und ihr Versprechen nicht hielt.
Sie konnte es nicht halten. Denn die Spendengelder, die ihr zugeflossen waren, reichten nicht für die Gründung einer Stiftung, wozu es einer Mindestsumme bedarf. Dass ihr weder Geld noch herkömmlicher Luxus etwas bedeuten, ist möglicherweise der Grund, warum sie dem Verdacht nicht nachgeht, ein erheblicher Teil der Spenden sei in undurchsichtigen Kanälen versickert.
Natascha Kampusch erzählt uns in einem der Vorgespräche, dass sie sich in ihrem Gefängnis die Zeit mit Singen vertrieb, etwa von Beatles-Songs. Wir bitten sie um eine kleine Kostprobe. Sie ziert sich. Ich bitte sie noch einmal. Sie lächelt und sagt einen Satz, den wir noch oft und in ganz anderen Zusammenhängen hören werden: »Das ist aber peinlich.« Finden wir gar nicht und betteln nun alle beide so lange, bis sie sich im Sessel aufrichtet, kurz das Haar schüttelt, für einen Moment die Augen schließt – und loslegt. Sie singt. Und singt. Und singt. Mit wunderschöner, klarer Stimme. Und der Zwischenansage, immer wieder: »Das ist aber peinlich.«
Natascha Kampusch steckt voller Talente. Ihren Gesang haben wir gehört. Dann dürfen wir noch eine urkomische Seite entdecken: Sie parodiert Leute, äfft Dialekte nach, und plötzlich sehe ich mich in der Rolle eines Lehrers für Sächsisch, an dessen Perfektion wir feilen, bis ihr mühelos Sätze über die Lippen fließen, als sei sie eine gebürtige »Leipz’scherin«.
Ihre Talente muss sie heimlich ausprobieren. Ich denke an meine eigene Jugend. Ich schrieb für eine Schülerzeitung. Andere sangen in einer Band. Trommelten im Jazzkeller. Malten – was auch Natascha Kampusch in ihrer Gefangenschaft tat. Aber wir durften das alles frei ausprobieren, ohne Häme in der Zeitung. Natascha Kampusch singt. Aha, das nun auch noch, würde sie wohl über sich lesen müssen. Sie holt den Schulabschluss nach – in schützendem Privatunterricht, damit nicht jede Note öffentlich kommentiert wird.
Natascha Kampusch erlaubt uns, als einzigem Kamerateam überhaupt, in dem Haus zu drehen, in dem sie ihr Martyrium erlebte. Danach wird nichts mehr so sein wie vorher. Sie wird das Haus entrümpeln und das Verlies zuschütten lassen. Darauf drängen die Behörden. Die Begründung klingt wie ein makabrer Scherz: Wolfgang Priklopil hatte das Verlies ohne Genehmigung gebaut.
An einem trüben Tag im März 2009 sind wir zur Vorbesichtigung verabredet. Mit dem Team wollen wir die Lichtverhältnisse im Haus prüfen, nach Stromanschlüssen für Kamera, Licht und sonstige Technik suchen. Der Kleinbus nähert sich Strasshof. Natascha Kampusch sitzt hinter mir, neben meiner Frau. Ihr Gesicht verdüstert sich zusehends. Sie spricht kein Wort mehr, wirkt unruhig und hochangespannt. Hinter dem Ortsschild beginnt eine lang gestreckte Gemeinde ohne Ortskern, achttausend Einwohner. Eine Hauptstraße, von der wir nach rechts in eine Siedlung mit Häusern und Gärten abbiegen.
Dann das Haus. Ein verwilderter Garten. Natascha Kampusch bleibt vor dem Garagentor stehen. Zögert. Schließt es auf. Durchquert die Garage und baut sich rücklings vor einer Tür auf. Sagt mit gesenktem Blick, dass sie niemanden in die Wohnung lasse. Zu intim die Welt, die ihr aufgezwungen war. Wir fragen nach dem Verlies. Sie zeigt wortlos auf Bohlen, eingelassen in den Garagenboden. Wir räumen sie zur Seite. Eine steile Steintreppe wird sichtbar. Der Kameramann schaltet eine akkubetriebene Lampe ein, tastet sich die Treppe hinunter. Ihm folgt die Regisseurin Alina Teodorescu. Ich sehe zu Natascha Kampusch hinüber. Sie steht da mit niedergeschlagenen Augen in ihrem schwarzen Mantel. Verloren, einsam, stumm. Ist dies, frage ich mich, ein Moment der Vergewaltigung, bei der wir die Täter sind? Ich höre mich etwas zu ihr sagen. Was, weiß ich nicht mehr.
Sie zeigt auf meine Frau und mich. »Kommen Sie«, sagt sie leise. Und öffnet nun doch die Tür. Wir drei gehen durch die Wohnräume, in denen sie sich aufhalten musste, wenn ihr Entführer sie heraufließ. Unter seiner strengen Aufsicht, bei heruntergelassenen Jalousien, die wir jetzt erstmals sehen. Uns verschlägt es die Sprache. Dafür spricht Natascha Kampusch, fast flüstert sie.
Stockend beschreibt sie noch einmal den Horror, von dem sie uns bereits erzählt hat, der sich aber hier, wo wir jetzt stehen, abgespielt hat – als wolle sie sich dafür entschuldigen, dass diesem Horror das passende Ambiente fehlt. Dass man, was ihr geschah, diesen Räumen nicht sofort ansieht. Langsam durchstreifen wir mit ihr Zimmer, in denen einfach nur düstere Normalität steht. Keine Folterbänke, keine Schreckenskammern. Nur banale Spießigkeit, aus der uns Bilder der Gewalt und grausamer Machtspiele anspringen, nicht weil wir sie sehen, sondern weil wir es wissen. Was Natascha Kampusch uns erzählt hat, hier wird es lebendig. Es überwältigt uns.
Sie bemerkt unseren Schock. »Lassen Sie uns nach draußen gehen«, sagt sie. Wir folgen ihr. Auf dem Rasen vor dem Haus atmen wir tief durch. Dann schießen meiner Frau die Tränen in die Augen, plötzlich, ohne den nassen Schimmer, der das Weinen sonst ankündigt. Natascha Kampusch nimmt ihre Hand, streichelt sie. »Ich bin stark, Frau Reichard«, sagt sie. Ich bin es nicht. Auch ich kann meine Tränen nicht halten. Wir drei umarmen uns. Alina Teodorescu kommt auf uns zu. In geduckter Haltung, fast demütig. Sie war im Verlies. Auch sie hat Tränen in den Augen. Nimmt Natascha Kampusch in die Arme. »Meinen Respekt!«, sagt sie. »Dass Sie das überlebt haben!« Und schaut sie an, als sehe sie sie zum ersten Mal.
Tage später, im Haus wird bereits gedreht, ist es so weit: Ich steige in den Keller, krieche dem Grauen, dem innersten, entgegen. Um mich herum ist alles schwarz. Kalt, eng, feucht. Modergeruch steigt mir in die Nase. Ich falle kopfüber aus dem geteerten Tunnel in einen winzigen Vorraum. Links eine bauchige Betontür, 150 Kilo schwer. Ich richte mich auf, stoße rechts erst eine, dann eine zweite braune Holztür auf. Mache einen Schritt. Und stehe im Verlies.
Ein Hochbett. Tischchen. Stuhl. Regale. Spüle. Klo. Ein Kinderzimmer von funktionaler Unbarmherzigkeit. Ein Hobbykeller für Perverse. Hineingepresst in nicht einmal fünf Quadratmeter Fläche. Meine Frau nimmt drei Anläufe, dann hat auch sie es geschafft. Sie steht neben mir, greift ans Bettzeug, weil sie es nicht glauben kann, dass hier ein Mensch geschlafen hat. Begreift, dass es so war. Stürzt in Panik davon. Das alles von Natascha Kampusch erzählt zu bekommen war eines. Die Realität jetzt, sie ist zu brutal.
Ich bleibe. Denke an Nataschas Entführer Wolfgang Priklopil. Was mag in ihm vorgegangen sein, wenn er hinter ihr die schalldichten Türen schloss? In den Zugangsschacht einen schweren Tresor wuchtete, ihn in der Mauer verschraubte und den Schrank davorschob? Eine Stunde hat es jedes Mal gedauert, sie wieder einzuschließen in ihrem Kellerloch, das wissen wir von Natascha Kampusch. Ein Schauer läuft mir über den Rücken. Sie. Oder jetzt ich. Allein in dieser engen Betongrube. Kommt er zurück? Oder verrecke ich hier drinnen, einsam, von niemandem bemerkt? Der blanke Horror. Ich zwänge mich raus aus dem gottverdammten Verlies. Haste die Treppe hoch. Und bin zum zweiten Mal froh, wieder an der frischen Luft zu sein.
Ich frage mich, bis wohin die Polizei wohl vorgedrungen wäre, wenn sie im Haus nach Natascha Kampusch gesucht hätte. Hätten die Beamten hinter dem Tresor den Zugang zum Verlies vermuten können? Nachdem Priklopil den Tresor geöffnet und darin verwahrte Dokumente präsentiert hätte? Hätte nicht fast jeder gedacht: Gut, ein Tresor, ein vielleicht etwas spinnerter Typ, aber doch kein Monstrum? Hätte nicht fast jeder an diesem Punkt die Durchsuchung beendet?
Es tut Natascha Kampusch weh, dass ich sie nach den Details ihrer Gefangenschaft befrage, später dann vor der Kamera in einem Wiener Fernsehstudio. Sieben Tage lang, immer jeweils einige Stunden. Sie wehrt ab, dreht den Spieß um und befragt mich. Die Kamera läuft, wir plaudern. Dreißig, vierzig Minuten. Viele Informationen von mir, kaum eine von ihr. Aber irgendwann gibt sie den Widerstand gegen meine Fragerei auf und konzentriert sich auf ihr Inneres. Es ist mucksmäuschenstill. Ihr Blick senkt sich, sie fährt wie in einem gläsernen Fahrstuhl hinab – dorthin, wo sie die ganzen Abscheulichkeiten gespeichert hat.
Sie liest sie ab, so scheint es. Leise, fast monoton. Mit einer Distanziertheit, als habe, was sie erzählt, nichts mit ihr zu tun. Und plötzlich ist der imaginäre Fahrstuhl wieder oben, und Natascha Kampusch steigt aus. Sagt energisch, sie brauche eine Pause. Springt auf. Isst, trinkt, lacht. Und macht mir Vorwürfe, dass ich im Interview zu sehr in die Tiefe gehe. Minuten später sitzt sie wieder vor der Kamera. Und das Spiel beginnt von vorn.
Ein hartes Spiel. Für sie natürlich. Für mich aber auch. Ich möchte ihr nicht wehtun mit meinen Fragen und fühle gleichzeitig den Druck, meine journalistische Aufgabe zu erfüllen. Und da ich nicht lockerlasse, sagt sie einen Satz, den ich nie mehr vergessen werde: »Polizisten sind furchtbar. Journalisten sind noch furchtbarer. Und Sie sind beides.« Dann lächelt sie mich an.
Translation - Italian "Io sono forte"
Tre anni fa Natascha Kampusch sfuggiva al suo rapitore – dopo 3096 giorni di segregazione. Ora, in compagnia del nostro autore Peter Reichard, torna sui luoghi che l'hanno vista prigioniera.
Il 23 agosto 2006, verso l'una di pomeriggio, una giovane donna corre a perdifiato fra i giardini di una zona residenziale di Vienna. Ha colto al volo un'occasione propizia per sfuggire all'uomo che l'ha rapita mentre andava a scuola, a dieci anni, e l'ha tenuta prigioniera a casa propria, rinchiusa dentro un bugigattolo in cantina, per otto anni e mezzo. Tremilanovantasei giorni e notti. La ragazza riesce a mettersi in salvo. Il suo rapitore si toglie la vita. Da un giorno all'altro il nome di Natascha Kampusch fa il giro del mondo. E tutto il mondo vuole sentirle raccontare la sua storia.
Quando aspetti il tuo turno in un ufficio pubblico e hai il numero 134, sai che l'attesa sarà lunga. Ma sai anche che prima o poi toccherà a te. È esattamente così che mi sento. Il 134 è il numero che mi ha assegnato il primo responsabile ai rapporti con i media di Natascha Kampusch, da giorni impegnato a reggere l'attacco frontale dei giornalisti, un esercito, che premono per un'intervista. Alla fine le mie chance si ridurranno a una su 400, tanto nutrita è la concorrenza. Vogliamo tutti la stessa cosa: parlare con Natascha Kampusch di quello che le è successo. In esclusiva, beninteso.
Prima di diventare documentarista ero agente della polizia criminale ad Amburgo e ho lavorato a due casi di rapimento internazionale. Sicché ho pensato di sfruttare i miei trascorsi di poliziotto per mettermi in contatto con gli ex-colleghi austriaci coinvolgendo al contempo mia moglie che, oltre a essere giornalista, è anche particolarmente sintonizzata sulla mentalità austriaca (ci è nata, in Austria).
Da Vienna torniamo con la promessa che polizia e procura di stato appoggeranno il nostro progetto – a una condizione: che Natascha Kampusch sia d'accordo, il bene della vittima viene prima di tutto. Restiamo colpiti dalla premura delle autorità. Se abbiano riservato anche a noi un trattamento di favore non sapremmo dirlo, ma di certo c'è che, d'un tratto, tutte le porte ci si spalancano davanti. Possiamo incontrare Natascha Kampusch. Nell'ufficio del secondo responsabile ai rapporti con i media.
Come comportarci?
Abbiamo sentito dire che il profumo la infastidisce. E che non ama la gestualità forte. Mannaggia, noi ci profumiamo e parliamo con mani e piedi. Decidiamo che faremo del nostro meglio per contenerci un po', ma che non tenteremo di presentarci diversi da come siamo. Anche perché dai tempi in polizia so bene che non la dai a bere a una come Natascha Kampusch, che ha passato anni a decifrare ogni più piccolo gesto e ogni minima variazione di tono del proprio carceriere nella speranza di trarne un vantaggio, anche solo infinitesimale, ai fini della propria sopravvivenza.
Ed eccola lì. Pallida e sottile. Ci sfiora appena il viso con uno sguardo timido, ci dà la mano con il braccio rigido e perfettamente a squadra. Una forma di auto-protezione, capiremo poi, un modo per tenere a distanza il prossimo. Perché non si fida praticamente di nessuno, Natascha. Wolfgang Priklopil, il suo rapitore, ha trasformato la fiducia di bambina in diffidenza; l'ha precipitata nel perenne stato d'allerta in cui vive chi è alla mercé di qualcuno e non sa mai cosa gli possa saltare in testa, a questo qualcuno. Chi vuole avvicinare Natascha Kampusch deve guadagnarsi la sua fiducia. Dicendo ciò che pensa e pensando ciò che dice. Mai tentare d'ingannarla. Ci mette alla prova, ci tiene a lungo sotto osservazione. Vuole vedere se abbiamo capito cos'è importante per lei – il rispetto della sua intimità, in primo luogo, di tutto ciò che è suo personale. Solo che il suo concetto di “sfera privata” è tutta un'altra cosa rispetto al nostro. E quella sfera è così fragile che non ci vuole niente a mandarla in pezzi.
Quel pomeriggio di marzo del 2007 Natascha Kampusch è il ritratto della tristezza infinita. In silenzio si lascia spiegare perché saremo proprio noi, con grande professionalità e ancor più grande comprensione e rispetto, a girare un documentario televisivo sulla sua storia. Tentiamo d'instaurare un dialogo. Le facciamo domande alle quali risponde educatamente, dolcemente, a bassa voce. Avrei voglia di abbracciarla. Mi controllo, scarto l'idea. Poi, alla fine, ha anche lei una domanda per noi. O meglio, una richiesta. Vuole sentirsi raccontare di Jakob von Metzler, su cui ho girato un documentario.
Restiamo di sasso – come le salta in mente? Dice che ha seguito alla televisione il drammatico caso del figlio del banchiere rapito a Francoforte, e ha dovuto fare uno sforzo per tenere sotto controllo i propri sentimenti, visto che a tenere sotto controllo lei ci pensava già il suo carceriere.
È passata un'ora. Dopo esserci accomiatati dobbiamo fare i conti con la tristezza che Natascha Kampusch ci ha inoculato. Sappiamo che le ci vorrà del tempo per abituarsi alla sua nuova vita. Che deve guarire, per quanto ciò sia possibile dopo quello che ha passato. Che deve sentirsi forte a sufficienza da arrischiarsi a collaborare con noi al documentario. L'abbiamo detto anche a lei. Sappiamo che per risultare credibili non dobbiamo farle pressione. Dobbiamo lasciarla tranquilla. Se e quando, sarà lei a dire: sono pronta.
Ci rendiamo conto che così facendo corriamo il rischio di restare a bocca asciutta. La concorrenza è spietata e martella senza sosta. Ma non abbiamo alternative. Possiamo solo aspettare e sperare.
Dopo un anno la nostra pazienza viene premiata. Natascha Kampusch è disposta a girare il documentario. Nel dicembre 2008 ci incontriamo di nuovo, questa volta sono presenti entrambi i responsabili ai rapporti con i media. Natascha è diversa, appare vivace, persino allegra. Ci racconta simpatici aneddoti sulla sua vita di tutti i giorni facendoci ridere più volte. Passiamo otto ore così. Incredibile come abbia superato il trauma, pensiamo. Nel gennaio 2009, però, quando ci rivediamo per discutere i dettagli del progetto, dobbiamo ricrederci. In quell'occasione facciamo conoscenza con un'anima travagliata che difficilmente potrà ritrovare la pace. Prima, per otto anni e mezzo, è stata in balia di un asociale disturbato; adesso sono i media che la tormentano. Tutti i santi giorni. Perché girano voci che la sua storia nasconda risvolti ancora più raccapriccianti – che Priklopil avesse dei complici, che appartenesse a un giro di pornografia infantile in cui sarebbe coinvolta l'alta società viennese, che la madre di Natascha abbia avuto un ruolo nel rapimento.
A creare la leggenda ha contribuito, senza volere, la stessa Natascha. Si è presentata davanti alle telecamere di mezzo mondo bella come una madonna che parla come un libro stampato. Sicura di sé, intelligente, eloquente. Non certo una vittima. E adesso ne paga lo scotto. Perché la sua versione dei fatti non soddisfa.
Anche se è la verità.
L'abbiamo rimasticata sino alla nausea con gli inquirenti. Con Natascha. Con sua madre. Con il miglior amico di Wolfgang Priklopil, il nostro testimone-chiave davanti alla telecamera. È andata proprio così: a rapire, tener prigioniera, sottomettere e seviziare Natascha Kampusch è stata una sola persona. Un uomo mentalmente deragliato in cui la malattia ha avuto alla fine il sopravvento, spingendolo a rapire una bambina per strada e imprigionarla per anni, così da potersi sentire grande e alimentare il proprio delirio di onnipotenza. Che onnipotenza non lo era nemmeno poi tanto, visto che Natascha non si è piegata. Che è riuscita a tener fuori la testa dal mare di pattume emotivo in cui Wolfgang Priklopil ha tentato di annegarla. E che alla fine è pure scappata. Lui l'ha uccisa, ma lei è ancora viva – anche se si porta dentro tutte le orribili impronte e le devastanti cicatrici che lui le ha lasciato incise nell'anima, come tracce di una suola carrarmato nella neve fresca.
Natascha è seduta di fronte a noi e mescola lo zucchero nel tè. Racconta di come è stata rapita, il 2 marzo 1998. Stava andando a scuola quando Priklopil ha fermato il suo furgone bianco davanti a lei, l'ha caricata a forza nel retro ed è ripartito. Dopo mezzora di strada si sono fermati, lui l'ha avvolta in una coperta blu e l'ha chiusa nella cantina di casa sua a Strasshof, un sobborgo di Vienna. Lì è rimasta sei o nove mesi (non lo sa di preciso, aveva perso la nozione del tempo) prima che la portasse per la prima volta su in casa - luci soffuse, tapparelle abbassate. Priklopil la controllava, la sorvegliava, la minacciava. E lei? Lei ha imparato a non piangere. Le lacrime lasciano il segno sulle piastrelle tirate a lucido e Priklopil, maniaco della pulizia, non lo tollerava. Gliele rimandava indietro con la forza, le lacrime. Dopo anni, ogni tanto, le permetteva di uscire in giardino, la notte, per qualche minuto. Lei si riempiva i polmoni d'aria. Strusciava la mano sopra erba e fiori. Lo implorava di lasciarle portare un ramo nella sua prigione sotterranea. Lui glielo concedeva, ma poi la puniva lasciandola a digiuno solo perché aveva scoperto una ditata unta sul tavolo della cucina, impronta che si affrettava a togliere usando la mano di lei come straccio. Una vita d'inferno in balia di un demonio che, nonostante l'occasionale rigurgito di gentilezza, era pur sempre un demonio. Col quale ogni minima cosa andava contrattata.
Natascha era felice quando lui la lasciava nella sua prigione invece di portarsela di sopra in casa, stava meglio nel minuscolo mondo di cemento che divideva con i libri, i fogli di carta e le matite – e poi, più avanti, anche con una radio e un televisore, sul quale guardava le videocassette.
Pochi mesi prima che Natascha riuscisse a fuggire, Priklopil se l'era portata dietro un paio di volte quando andava a far spese – l'aveva messa in contatto col mondo, insomma, quello stesso mondo che adesso si domanda come mai lei non abbia approfittato di uno di quei momenti per scappare o, almeno, chiedere aiuto. La risposta di Natascha: dubitavo che la gente avrebbe capito la mia condizione e avrebbe saputo reagire con la necessaria prontezza. E poi Priklopil aveva minacciato di uccidere sui due piedi lei e chiunque si fosse messo in mezzo. Del resto come poteva contare sui propri simili, Natascha, dopo esserne stata tenuta a distanza per anni, incapsulata in una realtà in cui esistevano solo il suo rapitore e le sue personali esigenze? Come infrangere una simile barriera psicologica?
“Basta fare l'esperimento con un gatto di casa, di quelli che non escono mai”, dice. “Se lo metti fuori dalla porta, dopo qualche passo si ferma e si mette a miagolare disperato, perché ha paura della libertà. Paura che succeda qualcosa, là fuori, per cui verrà riacchiappato e punito. Un essere umano che viene tenuto a lungo prigioniero si comporta allo stesso modo”.
Natascha ha dipinto un quadro. Un uomo alla deriva su un lastrone di ghiaccio. Improvvisamente gli gridano “scappa!” Ma dove può andare? Può solo tuffarsi nell'acqua gelida e, a quel punto, è più sicuro restare sul ghiaccio. Così ha tenuto duro Natascha Kampusch per otto anni e mezzo. Grazie a un'infinita forza d'animo - ma da dove l'ha presa?
Forte lo era già prima che Priklopil la rapisse. E intelligente, con una spiccata intelligenza sociale. Durante la prigionia ha capito che l'odio l'avrebbe uccisa, così ha optato per una soluzione già difficile in condizioni normali, ma che per una bambina nella sua situazione ha dell'incredibile: il perdono. Ha perdonato Priklopil e le sue crudeltà il più in fretta possibile. Si è sforzata di vederlo per quello che era: una persona debole e confusa, succube del padre di cui aveva sempre ricercato l'approvazione senza mai ottenerla. E una volta capito tutto questo, gli ha perdonato di aver reso succube anche lei.
Certi momenti arrivava addirittura a pensare “meno male che non è toccato a un altro bambino. Io almeno sono forte”. Con questa consapevolezza si è posta un obiettivo – la fuga. Se il mio corpo e il mio spirito sono forti a sufficienza ce la faccio, si è detta. E così è stato. La vera libertà, però, non l'ha ottenuta. Perché Natascha Kampusch è ancora prigioniera. Cioè, lo è di nuovo. Il suo raggio d'azione è più ampio, certo, la libertà di movimento anche, ma rimane sotto controllo, osservata, sorvegliata a ogni passo. Dalla società, questa volta.
Che non ha apprezzato il talk show (nel frattempo annullato) sull'emittente austriaca Puls4, in cui intervistava i VIP. Che la crede ricca sfondata e la critica perché gira in metrò invece che in limousine – Natascha non ha una limousine, così come non possiede le cifre iperboliche di denaro che le vengono attribuite (ha solo ereditato la casa di Priklopil, a mo' d'indennizzo). Che la taccia di millantato credito, perché promette di sostenere progetti socialmente utili e poi non rispetta l'impegno.
L'impegno non ha potuto rispettarlo, spiega Natascha, perché le donazioni ricevute non hanno raggiunto la cifra minima necessaria a istituire una fondazione. Dei soldi e del lusso non le importa un bel niente, e probabilmente è per questo che non si preoccupa nemmeno di rispondere a chi insinua che il grosso delle donazioni sia stato deviato su qualche conto privato.
In uno dei colloqui preliminari ci racconta che per passare il tempo, quand'era prigioniera, cantava – i Beatles, per esempio. Le chiediamo di farci sentire qualcosa. Si schermisce. Insisto. Ride e pronuncia una frase che avremmo udito ancora spesso, in seguito, e in contesti del tutto diversi: “Mi vergogno”. Le diciamo che non ha niente di cui vergognarsi e insistiamo e imploriamo finché si raddrizza sulla poltrona, dà un colpetto con la testa per aggiustarsi i capelli, chiude gli occhi un istante – e attacca a cantare. Canta. Canta. E canta. Con voce limpida, cristallina, bellissima. Infilando qua e là, come un ritornello, “mi vergogno”.
Natascha Kampusch è un concentrato di talenti. Dopo le doti canore, scopriamo il suo lato comico: sa imitare alla grande parlate, vezzi e atteggiamenti, e d'un tratto mi ritrovo a darle ripetizioni di dialetto sassone sino a che riesce a snocciolare le frasi più assurde con la scioltezza di una cresciuta a pane e Lipsia.
Le sue capacità, però, le deve esibire di nascosto. Ripenso a quand'ero giovane e scrivevo per il giornale della scuola. C'era chi cantava e suonava in qualche band. Chi jazzeggiava in cantina. E chi dipingeva – come Natascha Kampusch mentre era prigioniera. Solo che noi eravamo liberi di fare le nostre cose senza che i giornali ci commentassero sopra. Natascha Kampusch canta. Ahhh, pure. Come se non fosse già abbastanza sotto i riflettori. Sta studiando per la maturità – prende lezioni private, privatissime, per evitare che ogni singolo voto diventi di pubblico dominio.
Natascha ci consente di girare (siamo l'unico team televisivo cui concede il privilegio) nella casa che per otto anni e mezzo ha fatto da sfondo al suo tormento, e che dopo non sarà più come prima, perché l'appartamento sarà sgomberato e la cella sotterranea interrata. Per ordine delle autorità. Anche se la motivazione ha il sapore di un macabro scherzo: Wolfgang Priklopil l'aveva costruita abusivamente.
Il sopralluogo per le riprese è fissato in una fosca giornata di marzo del 2009. Con il team vogliamo verificare le condizioni di luce e gli allacciamenti di corrente per le attrezzature. Ci stiamo avvicinando a Strasshof. Natascha Kampusch è seduta dietro di me, accanto a mia moglie. La sua espressione s'incupisce di chilometro in chilometro. Non parla più, si fa via via più tesa e irrequieta. Passato il cartello della località ha inizio un rado agglomerato urbano spalmato per il lungo, senza centro e senza soluzione di continuità. 8000 abitanti. Una strada principale da cui, svoltando a destra, arriviamo in una zona residenziale di villette con giardino.
Ecco la casa. Il giardino inselvatichito. Natascha Kampusch si ferma davanti alla porta del garage. Esita. Apre. Attraversa il garage e si appoggia di schiena a una porta. A occhi bassi dice che non lascia entrare nessuno in casa. Troppa l'intimità che le è stata imposta lì dentro. Chiediamo della prigione. Senza parlare lei indica un tavolaccio di legno nel pavimento del garage. Spostiamo le tavole. Appare una ripida scaletta di pietra. Il cameraman accende un faro a batteria e si avvia cauto giù per i gradini, seguito dalla regista Alina Teodorescu. Guardo Natascha. Se ne sta lì a occhi bassi, affondata nel suo cappotto nero. Persa, sola, muta. Mi domando se non siamo noi gli stupratori, questa volta. Mi sento parlare, le dico qualcosa ma non so più che cosa.
Natascha fa segno a me e a mia moglie. “Venite”, dice piano, e apre la porta. Entriamo nelle stanze in cui era costretta a stare con il suo carceriere, sotto il suo sguardo di predatore, con le tapparelle abbassate che noi vediamo per la prima volta. Ci mancano le parole. È Natascha a parlare, in una voce che è più che altro un sussurro.
Esita nel descriverci di nuovo quello che ci ha già raccontato, ora che ci troviamo nel luogo in cui è accaduto - quasi volesse scusarsi che l'ambiente non è all'altezza dell'orrore, che le pareti non trasudano efferatezza. Vaghiamo a passo lento da una stanza all'altra dove, in effetti, non si respira altro che una tetra normalità. Niente cavalletti di tortura, niente camere dei supplizi. Solo una banalissima piccolo-borghesità, da cui la violenza e gli spietati giochi di potere di Priklopil ci balzano addosso non perché li percepiamo, ma perché sappiamo che ci sono stati. Il racconto di Natascha qui diventa realtà. E ci travolge.
Natascha si accorge del nostro choc. “Usciamo”, dice. La seguiamo. Sul prato davanti a casa respiriamo a fondo. Poi mia moglie scoppia a piangere, tutto d'un tratto, senza nemmeno che gli occhi le si coprano di quel velo lucido che di solito preannuncia il pianto. Natascha le prende la mano e la carezza. “Io sono forte, signora Reichard”, dice. Io no. E infatti non riesco a trattenere le lacrime. Ci abbracciamo tutti e tre. Alina Teodorescu si avvicina. Con la testa incassata nelle spalle, quasi umile. È stata nella cella. Anche lei ha gli occhi bagnati. Abbraccia Natascha. “Complimenti”, dice, “per essere riuscita a sopravvivere”. E la guarda come se la vedesse per la prima volta.
Qualche giorno dopo, le riprese sono già iniziate, arriva anche per me il momento di scendere in cantina, di strisciare nel ventre dell'orrore. Buio totale. Uno spazio freddo, umido, angusto. L'odore di muffa mi assale le narici. Da un corridoio catramato sbuco ingobbito in un minuscolo stanzino. A sinistra una porta panciuta, 150 chili di cemento. Mi raddrizzo. Sulla destra una porta di legno bruno. La apro. Un'altra porta uguale. Faccio un passo. E sono nella cella.
Un letto rialzato. Tavolino. Sedia. Un paio di mensole. Lavandino. Gabinetto. Una cameretta spietatamente funzionale. Una stanza bricolage per perversi. Il tutto compresso dentro neanche cinque metri quadri. A mia moglie ci vogliono tre tentativi prima di riuscire a entrare. Mi sta appiccicata al fianco. Tocca la coperta sul letto, non riesce a credere che qualcuno possa dormire qua dentro. Invece sì. E scappa fuori sconvolta. Il racconto di Natascha era una cosa, la realtà è un'altra. Molto, troppo più brutale.
Io rimango. E penso a Wolfgang Priklopil. A quello che provava quando rinchiudeva Natascha dietro queste porte. Quando spingeva dentro il corridoio una cassaforte, l'avvitava al muro e poi ci trascinava davanti un armadio. Per sigillare la prigione ci voleva un'ora, ci ha detto Natascha. Un brivido mi percorre la schiena. Adesso sono lei. Sola dentro questo buco di cemento. Ritornerà? O mi lascerà marcire qui, dove nessuno può trovarmi? Il panico è totale. Annaspo fuori dall'incubo, risalgo la scala di corsa. Per la seconda volta in un giorno sono felice di trovarmi all'aperto.
Mi domando fino a che punto la polizia avrebbe perquisito la casa, nel caso fosse venuta a cercare Natascha Kampusch. Avrebbe intuito che dietro la cassaforte si nascondeva la porta che immetteva alla prigione sotterranea? Priklopil avrebbe aperto la cassaforte e mostrato che conteneva dei documenti... Non sarebbe stato logico pensare che, sì, il tipo era forse un po' strano - ma un mostro...? Chi, a quel punto, avrebbe insistito per una perquisizione più approfondita?
Per Natascha è una specie di aggressione quando le chiedo di raccontare – più tardi, davanti alle telecamere di uno studio televisivo viennese – i dettagli della sua prigionia. Più ore al giorno, per sette giorni. Le fa male. Contrattacca, mi ritorce contro le mie stesse armi – fa lei le domande. Parliamo, la telecamera riprende. Trenta, quaranta minuti. Io tiro fuori un sacco di cose, lei quasi niente. Poi, a un certo punto, cede al mio interrogatorio e si concentra su se stessa. Dentro se stessa. C'è un silenzio che si sentirebbe volare una mosca. Abbassa lo sguardo e scende, come in un ascensore di vetro, nella cantina delle atrocità.
Sembra che legga da un elenco. Parla sottovoce, quasi monotono. È così distaccata che viene da pensare che racconti di cose accadute a qualcun altro. Poi, di colpo, l'ascensore immaginario risale e viene fuori Natascha Kampusch. Dice secca che ha bisogno di una pausa. Si alza di scatto. Mangia, beve, ride. E mi rinfaccia di spingere troppo sul pedale. Pochi minuti dopo è seduta di nuovo davanti alle telecamere. E il gioco ricomincia.
Un gioco duro. Per lei, di sicuro. Ma anche per me. Che non voglio farle male con le mie domande, ma che nello stesso tempo non posso rinunciare a fare il mio mestiere di giornalista. Sicché non mollo. Finché Natascha dice una cosa che non dimenticherò mai: “I poliziotti sono tremendi. I giornalisti sono peggio. Lei è l'uno e l'altro”. E sorride.